“Io non sono Medea. Io mi chiamo Lissa. Io soffio sulla cenere, impasto focacce, ascolto il respiro dei suoi figli. Arinna, la mia bambina, è quasi una donna, mentre i gemelli sono ancora piccoli. Sono i figli di Medea e Giasone. Sono nati qui a Corinto, il primo giorno di primavera. Hanno atteso che la loro madre sbarcasse dalla nave e tornasse a piantare i piedi nella terra per venire al mondo".
Nella storia dell’umanità l’evento meno raccontato è sicuramente la nascita, ancor meno la nascita felice.
Espulso dalla tradizione della trasmissione orale e scritta, il racconto del parto si è ritrovato relegato ad una narrazione intima, quasi segreta, mai pubblica, mai epica.
E così le madri che partoriscono, le donne che le assistono e i bambini stessi che vengono al mondo non hanno potuto abitare l’immaginario collettivo, non sono mai divenuti archetipi di potenza e di coraggio.
Le madri che partoriscono alla vita gli esseri umani non sono dunque mai state modello di eroismo tanto quanto lo sono stati gli eroi guerrieri ed assassini cantati in tutte le epoche.
Quando io mi sono ritrovata a scrivere un libero adattamento per il teatro di Medea.
Voci di Christa Wolf ho ritrovato lo stesso spazio vuoto, la stessa assenza di parole. Christa Wolf, che ci ha raccontato una straordinaria Medea che non uccide i figli e che diverrà capro espiatorio dei misfatti del potere, nulla però ci dice del parto di Medea. Un parto gemellare che dovrà ovviamente essere avvenuto per via vaginale. Allora l’ho scritto io. E l’ho fatto raccontare dalla sorella di latte di Medea, Lissa, l’amica che fu anche la sua prima ostetrica. Il parto di Medea che io racconto non l’ho inventato, è avvenuto qualche anno fa all’ospedale di Monza da parte di una bella donna bionda che ha dato alla luce due maschi assistita da un’equipe di abili e generose professioniste.
Quando ci decideremo a rimettere al centro della storia umana le madri, le relazioni di aiuto e le pratiche di accudimento, sarà sempre troppo tardi.
Il ventre di Medea era immenso, pesante. Il canto delle nostre donne per tutta la notte ha accompagnato il ballo del suo travaglio. Dondolava da un piede all’altro. Si toccava con le mani il ventre, le natiche, le gambe. Si piegava a terra e si tirava su. Parlava. Rideva. Sudava. Si fermava in ascolto. Allora mi guardava e non mi vedeva. Si alzava sulle punte dei piedi, tornava giù. Il tempo passava e il dolore cresceva. Cresceva il nostro canto e il bambino scendeva. D’un tratto era pronta e per qualche minuto tutto si è fermato, solo brividi, vertigini, respiri. Mi accarezzava il viso. Mi chiamava, mi sorrideva, per un attimo mi è sembrata una bambina. Poi l’onda è ripresa potente. Allora Medea ha cominciato ad emettere un suono profondo e pulsante, soffiava come una giumenta, come un toro che si prepara a caricare, lo sguardo avanti, i denti serrati. Urlava e soffiava, mi guardava spaventata, fiera. Il suo corpo si apriva con le urla e col desiderio. Desiderio del figlio. Con le mani gli ha toccato la testa e si è messa a mugolare un canto per trovare la pazienza di aspettare ancora. E così è nato Ferete: nel canto della madre. E nelle le urla felici delle altre donne.
Poi doveva nascere Medeo. Ma non è stato altrettanto facile. Medea aveva ripreso il ballo del travaglio ma sembrava che dentro di lei la musica non arrivasse. Passava il tempo e il bimbo non scendeva. Si spostava nella stanza. Si stendeva, si alzava, dondolava e si accovacciava. Era pallida. Abbiamo cominciato a temere. Ripeteva una nenia incomprensibile per mantenersi tranquilla. La rassicuravo io ma lei sapeva meglio di me quel che stava succedendo. Il parto era aperto, ma il secondo figlio non era pronto per uscire e lei era troppo stanca per spingerlo fuori. Era una questione di tempo e il tempo passava. La morte e la vita si volevano guardare negli occhi. Le donne si agitavano, facevano confusione. Allora Medea mi ha detto: falle uscire tutte, tranne una. Poi a me e all’altra ha messo le braccia intorno al collo, l’abbiamo sollevata tenendola ciascuna per una gamba. Gli occhi chiusi, appesa su di noi, spingeva e urlava. Poi tornava a terra. Si riposava e parlava a quel figlio. E poi ancora su di noi, spingeva e urlava. Eravamo in tre a scacciare la morte. In tre chiamavamo quel bimbo alla luce. Sembravamo un albero. Medea piangeva e urlava. E’ nato così Medeo tra le lacrime della madre, appeso ad un albero di donne. “
da La città ha fondamento sopra un misfatto di Giuliana Musso